lunedì 26 luglio 2010

Invisible Lives / Brazilian Street Girls - Leticia Valverdes


Claudio Camarca e "I Santi Innocenti", Marie-Fance Botte e i suoi "bambini di vita", Kent Klich e i vari mocciosi malati di AIDS privi di ogni futuro e residua speranza, Stephen Shames e le ossessioni umanistiche di solidarietà ed amore per il prossimo (necessariamente vessato), Olivia Gay e il realismo esasperato degli scatti sessualizzati - nulla di meglio, quando finiamo a parlare di arte intrinsecamente pornografica, di umanisti allo stadio terminale.
Di quegli artisti, fotografi o giornalisti o scrittori, che vogliono convincerci di quanto male e di quanta sofferenza regnino sovrani nel mondo.
Epifanie tailandesi di blowjob dentro scassate capanne in riva al mare, orde di tedeschi obesi dediti a gare di sborrate in faccia a ragazzine tailandesi, sbronzi, verosimilmente strafatti, paonazzi in viso e sudati, consumano le loro scopate frugali tra kleenex lerci, zanzare, puzzo di sudore e piscio, macchie in espansione di sperma, dietro quattro assi di legno traballante e una tendina di pessimo gusto, ultima frontiera prima della totale distruzione della dignità - MarieFrance Botte ne soffre, eppure, sia pur piegata in due dai conati e dal disgusto e dalla empatica condivisione di sofferenza con le ragazzine vittime, mantiene quella lucidità necessaria per raccontarci in ogni minimo dettaglio le gang bang di questi laidi turisti sessuali.
(In)degna carrellata di atrocità parapornografiche; colloqui dolorosi con pedofili malati di AIDS, con genitori intenti a vendere i figlioletti, squarci di paesaggio d'inferno, le povere ragazze che nel rogo del bordello in cui erano segregate e costrette a prostituirsi rimasero incatenate al letto, e furono ritrovate dai pompieri in guisa di tizzoni ardenti; carne bruciata ed urlante, senza alcuna via di scampo.
Kent Klich, lo sapete, si sente ardere dal sacro fuoco dell'indignazione (no pun intended), è straziato da quei volti infantili devastati dal sarcoma di kaposi e dalle aride stanze degli orfanatrofi socialisti, eppure rimane fermo, immobile, col dito premuto sulla macchina fotografica per darci una testimonianza di amore e fratellanza con sopra stampato il codice ISBN e il relativo, non modesto, prezzo.
Leticia Valverdes aspira ad essere, al tempo stesso, emula di Stephen Shames e di Olivia Gay; di Shames, epigona concettuale, battagliera pasionaria pronta a mettere sul tavolo le nude carte della realtà brasiliana, la stessa carica di furiosa indignazione. Della Gay invece riprende certi stilemi tecnici, certe pose, certe riprese, certo iper-realismo virtuosisticamente colorato.
Invisible Lives/Brazilian Street Girls ha un tocco morbido e soffuso di disperazione obliqua; chi ha familiarità con l'opera di Salgado, non potrà non notare certi sguardi che tornano, certi corpi flessuosi e di scarna povertà, messi lì a tradire il simbolismo dello sfacelo, della miseria, interni di case abitati da famiglie estese.
Ma a differenza di Salgado, nell'opera della Valverdes di redenzione se ne intravede poca; in fondo, per convincerci del male, per farci stare davvero male, per renderci empaticamente complici di sfruttatori capitalisti e maiali sessuali l'unico modo è andare dritti per la strada della nefandezza compiuta. Ma scattando in maniera tecnicamente ineccepibile.
Così la fotografa brasiliana, convenientemente, bandisce ogni traccia di allegria, di umanità; d'altronde una vita per essere evocata dall'invisibilità deve essere dipinta in maniera accesa, vivida, in modo tale che colpisca la nostra immaginazione e soprattutto la nostra pancia. Fotografia di ventre, di istinti bassi. In linea perfetta con gli umanisti d'assalto, produttori di grandiosa pornografia per noi degenerati.
Ma la Valverdes ha un'idea geniale, seconda solo a quella di Camarca quando si finge pedofilo per portarsi in albergo una prostituta minorenne: vuole ridare la percezione della propria immagine a queste sfortunate figlie del Brasile. Costrette a vedersi deformare da specchi sporchi e dalle vetrine di negozi a cui non potranno mai avvicinarsi, le fornisce di trucco, make-up, vestiti dignitosi e facendo leva sui loro istinti infantili e civettuoli le rende modelle, più o meno, consapevoli di scatti in cui produrre il trionfo della...identità.
Da sempre a quanto pare una fissazione della fotografa, l'identità qui diventa un esercizio di stile e una crudele messa in scena del tono kitsch e grottesco (exploitation) con cui queste ragazze, ingenue, povere in canna, disposte praticamente a tutto, si genuflettono agli scatti socialmente consapevoli dell'autrice del photobook.
Praticamente, un supermarket di annientamento emotivo.

Hate Parade




Invoca la pace, ed avrai la guerra.
Guerra nel fango, sotto un cielo livido carico di nuvole, lungo una linea d'orizzonte tremolante e scossa dai bassi elettrici intenti a propagarsi sulla pelle raggrinzita di musicisti eternamente giovani- il motto di Von Salomon lontano dalle garitte e dalle trincee e scolpito a sangue sulle carni dei ragazzi festanti, un rito collettivo tramandato di generazione in generazione e riesumato di peso per logiche di mercato.
E per l'amore, certo.
Nel 1994 la violenza fu episodica, esteriore, una battaglia di fango e chiazze di sangue, qualche approccio sessuale rubricato come violenza e/o molestia, qualche incisivo saltato - in the name of Love.
Nel 1999 le cose si fecero più serie e il mosh diventò la sublimazione precisa di guerriglia urbana, tra alcolici, droghe, ormoni impazziti, nichilismo da stagediving ed estasi elettrizzata di una folla priva, decisamente, di alternative migliori. Americani a briglia sciolta, nel teatro di Rome ma senza Colosseo nè, celinianamente, pani e circo; nessun gladiatore, solo i pessimi Limp Bizkit, cazzomoscio nomen omen, a soffiare sul fuoco e ad incitare per il loro quarto d'ora di celebrità gli scavezzacollo del mosh pit a frantumarsi le ossa tra pogate e salti piroettanti, nessun derviscio solo baccanali di ginocchia frantumate e qualche tizio in coma. Portato via da barellieri stanchi morti, sotto l'afa irreale di un cielo di piombo. Per l'amore, anche qui.
Un milione di persone. Forse di più.
2010 - strade tedesche ordinate anche se la teknoparade avanza lenta, un serpente di carne sbronzo che barcolla e caracolla e tracima devastando il decoro urbano, non le droghe, non gli alcolici ma la massa nel suo complesso è il problema; una massa non ama, è muta, cieca, sorda, nera ed insensibile, si trascina avanti per abitudine, per mera fisiologia, come risposta al tanto amore invocato.
Amatevi tutti, schiacciati, frollati, gli uni sugli altri, muraglia di corpi sanguinanti, corpi maschili, femminili, pieni di droghe o sobri, disidratati, sudati, magri o grassi, belle ragazze insanguinate con le rotule fatte a pezzi dagli stivali borchiati di qualche fetish starlette, la parata avanza minacciosa, inarrestabile, un fiume nella stagione delle inondazioni, i pochi che comprendono cosa sta accadendo non possono fare nulla, devono continuare come zombie nella loro marcia, incastrati da corpi alla loro destra alla loro sinistra davanti dietro di loro, le autorità sono allibite e contemplano silenziosamente il massacro che battiti techno e glorificazione dell'amore materializzano davanti i loro occhi - sbarrati.
Le urla di sofferenza si perdono nel delirio musicale, le contorsioni di dolore si mescolano ai saltelli vitalistici e drogati di gioia - un paradiso artificiale di idiozia, di inconsistenza, di buone intenzioni molto opportunamente mandate al macero. Chi piange e chi strepita, chi sorride, chi amoreggia, chi invoca soccorsi che non potranno mai arrivare che non potranno mai fendere il muro di carne, chi evita la polizia, chi si arrampica sui carri, chi è costretto ad avanzare verso il tunnel sapendo che quella tenebra a breve inghiottirà la sua esistenza immagina il caldo le persone ammassate sfidando ogni legge fisica e logica, nessuna via di fuga, la doppia confluenza dei cortei rende impossibile la ritirata la fuga.
Bisogna andare avanti.
Camminare in linea.
Come sulla strada per un campo di sterminio, eretto frettolosamente per celebrare...l'amore.
Amatevi tutti mentre varcate la soglia di quel tunnel cittadino. Amatevi come solo un corpo fuso dentro un altro può fare. Mentre gli occhi iniziano a lacrimare, il respiro a farsi affannoso, mentre si prova dolore per il senso di oppressione di finitezza di claustrofobia per i corpi che si schiacciano e si comprimono come su una centrifuga impazzita. La pressione cresce, aumenta, diventa insopportabile, e il caldo non aiuta - chi cade, è finito.
Letteralmente.
Non esiste spazio fisico per tirarlo su, diventa, per la propria sopravvivenza, necessario passargli sopra; c'è chi tenta di evitare i caduti sul selciato, ma è impossibile. Ed allora il fiume umano li travolge, gli passa sopra, li maciulla rendendoli una poltiglia sanguinante di carne macinata.
L'amore non abita più qui.

domenica 25 luglio 2010

American Campgrounds, di Philip Best


Sulla strada, accadono cose bruttissime - dimenticate la beat generation, la celebrazione del viaggio e degli spazi sconfinati, le pompe di benzina e le foreste e le montagne e le città che hanno colonizzato deserti inospitali, dimenticate la speranza e la certezza di una qualche gioia, dimenticate l'azzurro del cielo l'ocra delle montagne rocciose il verde smeraldino del Vermont e del Colorado, le pubblicità sorridenti ed irridenti di vari fastfood, storie di camionisti e il peso invisibile della Frontiera.
Shasta Groene sa cosa significa viaggiare. Sua madre, il patrigno e un fratellino massacrati a bastonate da un predatore sessuale, Joseph Duncan, con alle spalle una lunghissima storia di precedenti specifici per molestie sessuali in danno di minori ed omicidi e stupri, lei e un altro fratello rapiti e portati dietro dal "mostro", come trofei per variazioni sul tema sessuale; una storia moderna di schiavitù, e di viaggio.
Non una esperienza di crescita e di liberazione ma al contrario di degrado, ossessione omicida, umiliazione ed espiazione, ogni chilometro percorso come metafora di un avvicinamento sensibile alle porte d'inferno.
Philip Best, ricorrendo all'arte del collage, giustappone immagini che richiamano alla mente la ferinità della natura umana, ritagli di giornale, scenari apparentemente di sogno, tempeste e spazi urbani, uno studio da bestiario medievale, corredato da uno scritto, Bodyguard, di Peter Sotos. Antica arte del collage, via magica per raggiungere la gratificazione istantanea - non tecnica, ma sostanza.
Dimenticate Jung, sincronie, Lacan, paranoia-critica, surrealismo e Dalì; si va dritti all'osso, alla gaudente e piangente celebrazione della bestia che vive nell'uomo, ogni volto è un cono d'ombra, argilla screziata da mestruazioni apocalittiche. Un commento per sadici allo stadio terminale, una tenera carezza al corpo putrefatto di una starlette porno - non c'è futuro per chi si incammina.
La lunga marcia del nostro scontento.

The Complete Peter Sotos










"Nulla di così spaventoso ed oscuro; mi sono divertito parecchio. Uccidere è un'esperienza divertente"

Albert De Salvo
"Più guardavo la gente, più ero spinto ad odiarla"

Charles Starkweather
"Non ho perso il sonno per quel che ho fatto"

Dennis Nilsen


Una sovrapposizione di frammenti - di esistenze e di dolore.
Un caleidoscopico arcobaleno di personalità infrante, emozioni, epifanie sofferenti, carni straziate e la baluginante immagine di una madre piangente, la madre universale che si trascina stanca ed affamata tra i palazzi di edilizia popolare trascinando un carrello di Walmarts, tra aliti di vento putrido e i neon dei locali porno, il RAM un tesoro della cultura gay pompini da un quarto di dollaro e libri di Samuel Delaney, pornografia straziante elevata a trionfo catodico Geraldo Rivera Oprah Maurizio Costanzo Barbara d'Urso Jerry Springer.
Che cosa provi ?
Chiesto ad una madre che piange la morte della figlioletta.
Che cosa provi?
Dimmelo mentre balli. Ma prima, per favore, aspetta che siano andati in onda i consigli per gli acquisti.
L'untuosa ingorda consistenza dell'ipocrisia televisiva, casalinghe smutandate annoiate dai club privè i conti di fine mese per ragionieri e direttori editoriali problemi di share e di battuage a Valle Giulia, non c'è più la redenzione di un Pasolini per i cazzi balcanici, scandali ecclesiastici pedofilia di provincia e genitori che vendono i figli per degradanti parties di nonni poco caritatevoli.
Ogni frammento incastonato delicatamente nel quadro generale, come petali di una rosa coperta di merda di cane; ogni residua speranza evaporata, ogni illusione defunta, frollata, deturpata. Madri che piangono, madri che impazziscono, madri che si illudono, madri che cercano conforto tra psicofarmaci e televisione, gossip e cronaca nera. Un ordine necessario per arrestare il declino, per tamponare la spugnosa consistenza dell'ossessione maniacale; Peter Sotos ha visto giusto, e ben prima delle tardive ed ipocrite flatulenze verbali di Andrew Vacchs o di Carlo Lucarelli.
Dimmi che cosa stai provando.
Ora.
In questo preciso momento.
Ora che il tuo pargoletto giace sotto tre metri di terra. Dove sono i libri di Moccia, le inchieste televisive, le Veline e la campagna acquisti della tua squadra del cuore, quel sistema organico di autoinganno, la via di fuga da una realtà priva di sostanza e di...realtà.
Peter Sotos scrive di realtà.
La realtà, poco piacevole, di un delitto eterno, assoluto, eretto a paradigma sadiano di una trasvalutazione dei Valori, la realtà che come un fiume di letame ci scorre sotto il naso per strada mentre noi, convenientemente, voltiamo lo sguardo dall'altra parte, cercando miseramente di confondere gli odori della morte con profumi dozzinali e lo spirito vaga nomade per una Disneyland dello spirito.
Va tutto bene, ci dicono.
Ma no - lo sappiamo, o meglio dovremmo sapere che non va tutto bene, che questo cazzo non è il migliore dei mondi possibili. Basta saper accettare la triste e tetra verità, per potersi gratificare; l'opera di Sotos è una glorificazione della personalità, un'enfasi addolorata per le emozioni estreme di parenti e vittime, la messa a punto sistematica della verità, il coltello che sventra la coltre di convenienti menzogne. La menzogna che ci rifriggiamo quando abbiamo paura di certi nostri impulsi.
La collezione in unica soluzione di tutte le opere di Sotos ha senso proprio per mettere in riga l'evoluzione, o l'involuzione, della sua visuale spietata sul mondo moderno; non una metafora ma uno schizzo di sperma sul faccino candido di un morto ammazzato, eternato sulla carta scolorita bianco/nera di un quotidiano popolare, tra titoli enfatici e un dolore azzimato buono per qualche carosello pubblicitario intrinsecamente metapornografico.
Dai roboanti esordi di Pure fino alle opere più recenti, come Lordotics, Show Adult e Kept, la totale chiusura verso l'esterno, l'ossessione che si fa assoluta, la masturbazione ossessiva, la creazione di un grado di pornografia purissima, un afflato circolare che spinge alla tentazione di dipartita dalla condizione umana; osservatore, partecipe, commentatore, masturbatore, sadico ormai socialmente consapevole, ironico, beffardo, cinico e crudele, Sotos è ciò che Dennis Cooper vorrebbe essere ma senza poesia, scrive ciò che oltraggia e soddisfa Vacchs, la conferma di carne e inchiostro delle fobie del mondo moderno, uno squarcio longitudinale nelle prigioni di asfalto e luci notturni tra pompini nei gloryholes e stralci di giornale, collezioni maniacali di storie sordide. Ritagli e foto di ragazzini massacrati, una fanzine idealmente elaborata come punto di congiunzione tra scrittura, processo creativo e orgasmo, progetti abbandonati e occultati nei cassetti metaforici e meno metaforici del piacere individuale, la pubblicazione come esperienza collaterale e incidentale.
Ogni parola è cesellata, pur senza organico editing; la reiterazione è costante, mantrica, eppure efficace. Comfort & Critique il miglior libro true crime senza enfasi sul crimine, voragine aperta interamente a mostrarci l'appropriazione la reificazione del quotidiano da parte di Sotos la giustapposizione di episodi di cronaca nera l'ipocrisia dei media l'allontanamento da Whitehouse idiosincrasie e ironia cupamente nera. Divertimento a spese dei creduloni.
In Kept, il libro moralmente più simile a Comfort, troviamo la stessa struttura di narrazione per immagini, un simbolismo sessuale chiaro solo all'autore mentre noi non possiamo che procedere a tentoni ed elaborare teorie ben chiare solo a Barbara d'Urso e alle sue interviste strazianti. Meccanismi di pornografia catodica e mediatica. Lacrime e schizzi di sperma, sangue e prostitute di strada.
Il declino è la costante della nostra civiltà. Sotos scrive di occasioni perse e orgasmi faticosamente raggiunti. Una umanità costantemente impegnata a perdere dignità, esibizione di emozioni intime a beneficio di segaioli rispettabili. Ogni casalinga è una pervertita, tanto amore richiesto e invocato per finire poi ad eccitarsi con le ricerche spasmodiche per l'ennesimo ragazzino scomparso. Una discesa in accelerazione, verso il magico punto di non ritorno in cui dignità è concetto privo di qualunque sostanza. Epifenomeno di una masturbazione collettiva, gang bang di morte e strazio.
Che cosa provi?
Adesso.
Dimmelo.
Ora che tua figlia è scomparsa.
Nutri l'irrazionale speranza di riabbracciarla, di rivederla viva. E preghi il signore affinchè non le sia capitato nulla di terribile, non puoi nemmeno razionalizzare l'ipotesi che sia finita nelle mani di qualche sadico bruto. Costruisci fantasie di inusitato candore, per evitare di dover impazzire. Spazi e interstizi bui, da cui la consistenza scintillante del dolore (e della consapevolezza che arreca dolore) sia bandita.
Peter Sotos getta luce. Su quegli interstizi. Spezza illusioni.
E facendolo, gode.

martedì 20 luglio 2010

Il Mostro di Firenze - TV


L'ineffabile duo Michele Giuttari/Carlo Lucarelli non aveva trovato di meglio, per nettarsi la coscienza sufficientemente lorda di denaro e polvere di stradine sterrate, che dedicare il saggio/romanzo di matrice true crime Compagni di Sangue alle giovani vite stroncate dal Mostro di Firenze.
Nella migliore tradizione dei case studies alla amatriciana, non poteva mancare un accenno di pietas e di moralismo veterolombrosiano; ed è così che ogni singola vittima diventa un angelico essere sceso dal cielo, un punto di contatto e collegamento tra le virtù teologali e una esistenza morigerata, consona all'elevazione alla santità. Si piange il sangue versato, e si ricordano le sensibili lacrime eruttate, in quel frangente storico di depravazione e giovani vite stroncate -i colpevoli, presunti o effettivi, in punta di sentenza o di sospetto, dipinti con le tinte fosche di un Bruegel toscano, tra aridi cespugli di rovi, paesi acciottolati lungo le vallate cariche di vigne, spari nella notte e voyeurismo spiccio. Una pornografia (stra)paesana punteggiata di scenari foschi e di individui riprovevoli, fisicamente, caratterialmente, moralmente.
Hanno facile gioco i due nel tratteggiare un contrasto, evidente e facile, tra i momenti di amore divertimento condivisione emotiva e sentimentale di giovani toscani (o turisti stranieri), alla ricerca di uno spazio di propria intimità, e la bestialità satanica e notturna di un voyeur che, nascosto tra gli alberi e le pieghe della tenebra, li spia li brama li concupisce e poi li uccide e scotenna seguendo le direttrici di un macabro rituale.
Adesso Canale5 ripropone lo sceneggiato televisivo già andato in onda su Fox Crime e diretto da Antonello Grimaldi, focalizzato sulla ricostruzione dei fatti e delle indagini; pur con alcune licenze (poetiche?), la sceneggiatura cerca di essere fedele il più possibile alle carte processuali e alle farraginose indagini che battendo alla cieca per anni videro le piste più improbabili chiamate in mezzo. Dalla criminalità sarda, notoriamente presente sul territorio toscano, a pecorecci e piccanti episodi di devianza esoterico-sessuale; un carnevale al limite del patetico di prostitute, impotenti, guardoni, esoteristi della domenica, artisti falliti, per cui si raccomanda a chiunque una lettura avida degli atti processuali.
Il dolore è un buon soggetto. Screziato di sangue, e polvere. Minimalismo esistenzialista dettato dall'agenda di un serial killer -una mano anonima, nascosta dal nero della notte; un'aura dannata e romantica che aleggia su coppiette amoreggianti, un incubo di piombo e lame affilate, di escissioni e sventramenti, feticci carnali, tette e il pube asportati con frettolosa ma meticolosa precisione. Gli autori del serial sapevano cosa raccontare, e come raccontarlo.
Pietà posticcia per determinare empatia; ma non un grado così elevato di empatia da poter far preoccupare le donne di casa. O forse sarò io ad essermi allontanato troppo dal sentiero della umanità. Non so dirlo.
So però che i trucchetti per incutere timore sono elementari. E contraddicono la realtà fattuale - essendosene accorta pure Wikipedia, rimando alla pagina ufficiale per un elenco sia pur sommario delle licenze poetiche e delle imprecisioni, che non a caso finiscono con l'essere funzionali ad una migliore riuscita dell'elemento suspence.
Pure la caratterizzazione dei personaggi principali è pensata e realizzata per ottenere un effetto emozionale diretto, senza tanti articolati arzigogoli. Basta pensare alla giovanissima procuratrice costretta, suo malgrado, ad indagare su vicende tanto atroci; sembra piangere in ogni ripresa, turbata, intimorita, piegata dal dolore e dalla morte assurda di tante giovani persone. Memorabili la scena del pacco contenente il seno di una delle ragazze ammazzate e quella del rinvenimento del corpo della prima vittima, nel folto dell'erba; Nicole Grimaudo sembra sempre sul perplesso e accigliato baratro della rottura psicologica, sull'orlo del pianto, e dello strazio. Mentre Vigna (un imperscrutabile ma decisamente fuori ruolo Bebo Storti) più che caldeggiarne l'operato o tentare, sia pure con giusta risolutezza, di motivarne le non facili scelte inquisitorie legate alle indagini, sembra una presenza fantasmatica, grottesca, un notaio dall'algido portamento totalmente privo di quella sanguigna verve che gli è stata comunemente riconosciuta da collaboratori e nemici.
In assoluto il personaggio più controverso è quello interpretato da Ennio Fantastichini; il padre di Pia Rontini, penultima vittima del Mostro, uccisa col suo ragazzo il 29 Luglio del 1984, nelle campagne circostanti Vicchio nel Mugello. Seguiamo la lenta, angosciosa, inconsapevole discesa nell'inferno privato di questa famiglia, lui lavoratore a Livorno, lei madre apprensiva di origini danesi, la figlia ancora ragazzina da poco impiegata come barista. La storia di Pia Rontini è senza dubbio una delle più toccanti e particolari tra le varie storie personali delle vittime del Mostro; perchè la ragazza, nonostante fosse stata colpita dai proiettili, venne trascinata fuori dall'auto e mutilata quando ancora era viva, in secondo luogo perchè il padre, lacerato letteralmente dal dolore, si impegnò fin dai primi giorni successivi alla morte della figlia in una instancabile opera di indagini private e di tentativo di onorare la memoria della figlia scomparsa. Fino all'oltraggio ricevuto nel 1994, quando le due croci bianche da lui piantate sul luogo del delitto vennero divelte da ignoti.
Che cosa rende grande un killer seriale?
Che cosa spinge a nutrire nei suoi confronti un senso profondo e morboso di fascinazione?
Molto semplice; l'ignoto.
Fino a quando il Mostro, qualunque Mostro, rimane nell'ombra, una presenza sinistra e sfuggente, priva di una effettiva connotazione umana, possiamo eleggerlo quale rappresentante (e rappresentazione) malevola della cattiva coscienza, delle passioni più incoffessabili. Adornarlo pure di un qualche senso di aristocratico e romantico compiacimento. ma quando la maschera cade, rivelando la vera consistenza umana dell'assassino, quando si celebra un processo, quando i retroscena più meschini bassi volgari patetici emergono, diventa difficile continuare a provare una qualche forma di rispetto per l'assassino.
E' il mistero ad aver reso grande Jack lo Squartatore; non è stato nè il primo serial killer della storia, nè il più efferato nè il più prolifico. Ma semplicemente non è mai stato preso nè davvero identificato; la gente ha potuto continuare a fantastica, ad immedesimarsi, a tentare una spiegazione, figurandoselo come un decadente demonio in tuba e marsina nera.
Ma se al contrario Jack si fosse rivelato un Pacciani qualunque, avrebbe perso almeno l'ottanta per cento del suo fascino.
Ed è questo il problema col Mostro di Firenze, e con le rappresentazioni (televisive o narrative) del Mostro. Fino a quando rimane nell'ombra, suscita ed incute timore; successivamente, diventa solo una miseranda sfilata di miserie umane.

domenica 18 luglio 2010

Blu come il sangue




Era inevitabile.
Esultate casalinghe, perchè la vittoria è vostra - a furia di scrivere compiaciute e timorose lettere alla posta di True Crime, a forza di inanellare share tripudianti di veline e teste maciullate, nell'ombroso punto di incontro tra criminologia accademica, file dentro le aule di tribunale e masturbazione davanti alla casetta di Olindo Romano e Rosa Bazzi, avete raggiunto ciò che da tempo vi eravate prefissate; l'organica commistione tra gossip e cronaca nera, quell'afflato giulivo, profumato di spezie esotiche, da tramonto romano al Circolo Canottieri, discorrendo amabilmente di ville in Toscana e stupri di gruppo.
La gang bang del crimine, una buona società fatta di centrini in pizzo e piccozze insanguinate ordinate per posta a Silling postal market del comportamento deviante, Durkheim a lezione da Marta Flavi - Lombroso non vi ha insegnato nulla, e nonostante questo siete voi ad uscire trionfatrici dalla battaglia per la conquista della egemonia culturale.
Gramsci non aveva capito nulla; la risposta è, ed è sempre stata, nelle tette di una starlette morta piangente e suicida nella sua stanza di albergo, lontana dagli affetti familiari, dal calore umano di un sorriso, di una pacca sulle spalle, di un bacio tenero e prolungato.
Drive-in e Waco, i proiettili, Charles Manson, gli stupri di Polanski, bambini abbandonati denutriti malati di AIDS, un vestitino rosa per occasioni di festa; anche il massacro ormai ha il suo bon-ton, i suoi ritmi, i suoi schemi prefissati dalla buona società, le lacrime di chiffon e il profumo, della morte, che non è più afrore da camera autoptica ma celebrazione gaudente di Vogue e Vanity Fair.
E' passata la tempesta; non avete più timore nel dichiararvi estaticamente avvinte dall'ultimo omicidio, non vi fermate perplesse ed ansimanti, col fiato mozzato e gli occhi incupiti, ad invocare la sapienza dell'oracolo Picozzi.
Ormai, un cadavere frollato rinvenuto tra le frasche ha quel retrogusto dolce di una esterna di Uomini & Donne, lo stesso candore virginale; siete state ben educate dalle sonatine malinconiche di Studio Aperto, dagli show di RAI2, dall'alternanza stordente e in accelerazione dei programmi pomeridiani, Barbara d'Urso il Grande Fratello le lacrime una madre che piange una figlioletta scomparsa o massacrata.
Davanti a questo circo, diventa difficile non ammettere, per quanto refrattari si voglia essere, che la cronaca nera ormai si è sublimata nel gossip e nella dinamica pornografica. Peter Sotos diventa Foucault, Dennis Cooper Deleuze; ciò che un tempo era piacere personale, diventa critica sociale, più o meno socialmente consapevole. La perversione viene metabolizzata e fagocitata, resa plastica, artefatta, masticata e risputata sotto forma di libri come questo.
Ma...
Per quanto si impegnino, per quanto vittoriose e tronfie siano, queste legioni di casalinghe continuano ad essere infastidite quando sotto il pizzo rosa si intravede la carne lacerata e nell'aria si spande il tanfo della merda, della putrefazione, quando la lacrima esce dal video e diventa una sofferenza reale. Questi libri vogliono produrre assuefazione e candore, per quanta merda adornino di profumo e seta non ce la faranno mai a negare il senso profondo della fine, della depressione, della sofferenza. Della sofferenza vera.
In quel punto in cui non esiste più voce chioccia e blesa, niente esterne, nè servizi patinati; quel punto in cui regna solo la morte. La morte totale, quel piacere che nessun Signorini, nessun Picozzi, nessuna casalinga, potrà mai alterare.